Siamo abituati ad attraversarla in fretta, occhio all’orologio e passo veloce. Se si alza lo sguardo è per un rapido consulto al tabellone delle partenze, in cerca del binario che ci interessa. Ma Porta Nuova può essere vissuta come un museo, in grado di riservare sorprese inaspettate.
Tecniche Antonelliane. Dopo aver ammirato i colori accesi della facciata principale, che proseguono nelle laterali via Sacchi e via Nizza, possiamo tornare ad abbassare, ma non troppo, lo sguardo. All’angolo tra corso Vittorio e via Nizza, è l’intricato colonnato che ripara l’accesso alla stazione a meritare un po’ del nostro tempo e della nostra attenzione. Nelle indicazioni del Brino, rappresenta il secondo degli elementi innovativi della stazione, anche se meno visibile e praticamente sconosciuto: «la struttura in “muratura armata” di tipo antonelliano con cui era stata realizzata la parte muraria, che consentiva la spazialità originale nei portici e negli ambienti interni».
Lapidi e busti. Restiamo sul lato di via Nizza, dove altri fregi e altre storie ci attendono. Una lapide, riportata all’originario splendore dopo anni di incuria, ricorda George Stephenson e il figlio Robert “che perfezionando la locomotiva / aprirono nuove via al commercio / vantaggiarono la fratellanza dei popoli / nel cinquantesimo anniversario / del mirabile trovato / gli italiani auspice Torino / MDCCCLXXX”. Sono invece in attesa di trovare nuova destinazione i busti dedicati ad altri due personaggi che diedero un grande contributo allo sviluppo delle strade ferrate: Bartolomeo Bona, ministro e Direttore Generale delle Ferrovie, e Pietro Paleocapa, scienziato, politico e ingegnere italiano.
La Sala Gonin. Sempre sul lato di via Nizza, destinato alle Partenze, si apre quello che può essere considerato il vero gioiello della stazione di Porta Nuova: la sala Gonin, sala d’attesa della famiglia reale. A pianta rettangolare, con angoli smussati, venne progettata nel 1861 dall’ingegner Alessandro Mazzucchetti e dal co-progettista Carlo Ceppi. Le decorazioni e gli affreschi appartengono ad alcuni degli artisti preferiti di casa Savoia, tra cui Francesco Gonin, che ne ha affrescato le pareti, contribuendo a trasformarla nel tesoro nascosto di Porta Nuova. Tre grandi dipinti, la Terra, l’Acqua e il Fuoco, raffiguranti scene mitologiche, dominano la parete centrale e quelle laterali. Ai quattro angoli, negli spazi “sovraporte” sono invece rappresentati i quattro continenti attraverso altrettante carte geografiche. L’affresco del soffitto è opera di Pasquale Orsi, che ha “aperto” un oblò affacciato sull’azzurro del cielo. Il lampadario centrale è in vetro di Murano, gli arredi sono costituiti da splendidi mobili, da boiseries settecentesche, mentre le finte porte, intarsiate nel loro coronamento, ospitano ampi specchi.
Se Sala Gonin è accessibile solo in occasione delle periodiche visite guidate; la Sala degli Stemmi, terminati i lavori, sarà invece aperta al pubblico, in quanto destinata a trasformarsi in spazio commerciale. Progettata nel 1864 per accogliere la biglietteria della stazione, la sala prende il nome dagli oltre 100 stemmi che ne decorano l’ampia volta a botte, rappresentanti le città raggiungibili in treno da Torino, con relativa distanza chilometrica.
La cappella. Spostandosi sul versante di via Sacchi, all’altezza di corso Stati Uniti, nel 1957 venne realizzata una cappella, riaperta nel 2015 dopo interventi di restauro. Merita una visita la vetrata policroma di Carlo Rapp, posta al centro della parete dietro l’altare, che rappresenta una Madonna in trono col bambino. Risalendo il binario numero 20, tornando nell’atrio, concedetevi un giro da Benetton: nell’ultima sala in fondo è possibile ammirare tre dei lampioni del 1892, con cui venne introdotta a Porta Nuova l’illuminazione elettrica, primo esempio di impiego per una stazione ferroviaria.
Memorie di guerra. Sulla facciata di via Nizza, accanto all’omaggio ai fratelli Stephenson, due lapidi ricordano i caduti del ‘15 – ‘18 e i “Ferrovieri del compartimento di Torino / caduti per la causa della liberazione / 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945”.
Inoltre, negli anni bui del conflitto, la stazione diventa centro di raccolta dei deportati ai campi di concentramento. Il primo trasporto partì il 13 gennaio 1944 con destinazione Mauthausen. Nel 1974 la città ha voluto ricordare i deportati torinesi con una lastra in rame incisa da Cagli, apposta verso via Sacchi, in corrispondenza del binario 17: “Partirono da questa stazione / i deportati politici per i campi di sterminio nazisti / A chi rimaneva lasciarono la consegna / di continuare la lotta contro il nazifascismo / per l’indipendenza e la libertà”.
E proprio durante la guerra, Porta Nuova fu colpita da bombe sia incendiarie, sia dirompenti, durante i bombardamenti dell’8 dicembre 1942 e del 13 luglio 1943, effettuati da aerei della RAF. I danni furono ingenti: crollo di muri, delle coperture e del tetto. Tetto che era già stato smantellato tra il 1940 e il 1941 per necessità belliche. L’elemento forse più significativo, tra quelli già ricordati che caratterizzarono a metà Ottocento l’aspetto innovativo della stazione, era rappresentato dalla struttura in ferro e vetro della volta, di 48 metri di luce, che ricopriva il fabbricato viaggiatori. Questo elemento poneva la stazione di Porta Nuova al livello delle strutture metalliche più avanzate in Europa, come il Palazzo per l’Esposizione di Parigi del 1855, a cui sicuramente Porta Nuova si ispirava. La tettoia venne smantellata per destinare i materiali metallici a scopi bellici. Per proteggere dalle intemperie i luoghi rimasti scoperti vennero realizzate delle pensiline di legno e tutti quei servizi che era possibile spostare furono trasferiti in altra sede, originando così altre demolizioni: è il caso della biglietteria posta nel chiosco ottagonale realizzato nel 1911, demolita e trasferita in via Nizza, così come del caffè e del ristorante che lì si trovavano.
Le bargioline e l’orologio. Se non vi è più traccia di quel sontuoso rivestimento, nell’ultimo intervento di restauro delle coperture, sono state invece mantenute le lose originarie della stazione, le cosiddette “bargioline”, grandi un metro quadro e spesse due centimetri ciascuna, oggi non più reperibili. «Per evitare movimenti che avrebbero potuto essere fatali per le grandi lose – spiega il Brino –, abbiamo rinforzato il sottotetto con lo stesso modo utilizzato nel primo grande restauro che risale al 1901, con rinforzi dal basso». Il recupero delle coperture ha interessato una superficie di 2350 metri quadri, per un totale di 51 interventi. Interventi, che nella volontà dell’architetto Brino, dovrebbero essere visitabili, attraverso una serie di tour guidati, che offrirebbero anche la possibilità unica di ammirare l’orologio della facciata principale dall’interno. In origine, quando le rotaie arrivavano fino a circa 6 metri dalla vetrata di fondo, che affacciava su corso Vittorio, l’orologio era visibile tanto dai passanti, all’esterno, quanto dai viaggiatori, all’interno. In una delle numerose trasformazioni che hanno caratterizzato nel tempo la stazione, internamente è stato eretto un muro, che ha separato la vetrata dall’atrio, dando vita nell’intercapedine a un corridoio, con vista sul retro dell’orologio.