Il grande scrittore umiliato dalla povertà, disperato per la malattia della moglie, si diede la morte nel 1911 sulle colline sopra corso Casale.
Aveva deciso – non si sa se da tempo, oppure appena svegliatosi – che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno. La misura, per un uomo prostrato dalle disgrazie economiche e dalla malattia della moglie, era colma. Di andare avanti così non se la sentiva più. La pazzia della consorte Ida, i figli che gli davano continue preoccupazioni e che non sapeva con che mezzi mantenere, gli editori che continuavano a strozzarlo offrendogli anticipi minimi per libri che avrebbero venduto migliaia di copie: il perverso meccanismo dei «pochi, maledetti ma subito» lo aveva orribilmente irretito, e non era stato in grado di uscirne. La lettera lasciata sul tavolo della cucina, un attimo prima di uscire per l’ultima passeggiata, cioè per il viaggio verso la morte, la diceva tutta sul suo stato mentale e sulle motivazioni che lo stavano spingendo verso il folle gesto: «A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna».
Da qualche tempo Emilio Salgari scriveva tre libri all’anno, annegando la fatica e l’esaurimento nervoso in centinaia di sigarette al giorno e in un bicchiere di marsala dietro l’altro. La mente era annebbiata, il morale sotto i tacchi.
Era la mattina del 25 aprile del 1911, un martedì come tanti altri: i primi tepori primaverili, ma un cielo che, poco prima delle otto di mattina, non prometteva nulla di buono. Emilio, l’inventore di mille racconti fantasiosi e di personaggi epici, salutò con un buffetto i quattro figli, ed uscì di casa.
Uno scoglio nel bosco. Il suo corpo, come scriveva La Stampa del 26 aprile 1911, fu ritrovato «nella parte più elevata delle colline di Valle San Martino, in un fittissimo bosco, di proprietà Rey, presso la strada del Lauro». Sino ad ora, nessuno sapeva il punto preciso nel quale Salgari aveva deciso di darsi la morte. Ma i vecchi del luogo la sanno lunga, quella triste storia è stata tramandata da generazione in generazione. Ci indicano con il bastone la porzione di bosco da tempo cintata, ci parlano di «una specie di scoglio del mar dei Sargassi», unico pietrone di quel crepaccio sul quale a metà degli anni Dieci era stata posizionata una targhetta nera di ferro che riportava la scritta «Qui morì Emilio Salgari», accompagnata dalla data di nascita e di morte, poi trafugata.
Era uscito di casa poco prima delle 8, dopo aver salutato i quattro figli. L’aria sapeva già di primavera, ma la cosa lo lasciava indifferente perché Salgari aveva deciso che quella mattina si sarebbe ucciso. Prostrato dalla malattia mentale della moglie Ida, da qualche giorno ricoverata al manicomio, e dall’indigenza, nonostante i milioni di libri venduti che avevano arricchito soltanto gli editori. Per quell’ultima passeggiata verso i boschi di Val San Martino, il quarantanovenne scrittore veronese, a Torino dal 1893, si era vestito con l’abito grigio della festa.
Gli ultimi passi. Lascia il portone di corso Casale 205 a passo lento, intanto fa il bilancio della propria vita. Alle 8 spaccate è all’angolo con via Monteu da Po, la breve perpendicolare della strada per Casale che inizia proprio di fronte alla chiesa Madonna del Pilone. Eccolo attraversare in diagonale i prati in leggera salita, inframmezzati da qualche terreno coltivato e da pochi edifici, tra cui il Famulato Cristiano al 44 di quella che ora è via Lomellina. Poi attraversa strada Valpiana, in cui s’intravede appena, sulla sinistra, la vecchia villa Momigliano. Man mano che sale, respiro affannato e fiato corto, gli orti e gli alberi si fanno più frequenti.
Svolta a destra sull’attuale corso Kossuth, oltrepassa largo Tabacchi che allora non era neppure accennato, e punta in direzione di villa Rey che scorge, minacciosa, sul crinale della collina che ha proprio di fronte. Ora sotto i suoi piedi c’è un piccolo sentiero, più o meno corrispondente con via Guinicelli, che ad un certo punto interseca l’appena abbozzata strada del Lauro, tanto verde e una sola casa, quella al civico 36. Passandole accanto cerca di guardare al suo interno, immaginando che lì potesse svolgersi una vita normale. Un po’ di buon umore, qualche soldo per dar da mangiare ai figli e una moglie felice e sorridente.
Poco dopo è di nuovo ora di girare a destra. C’è un nuovo sentiero (adesso si chiama Lauretta) sempre più fitto, sempre più in salita, sempre più selvaggio. Mancavano solo le liane. Lui lo conosce bene: è da lì che la famiglia Salgari, ai tempi in cui abitava in via Guastalla, passava in processione, con i figli più piccoli in braccio e il cestino del pic-nic trasportato a turno dai più grandi, per andare a godersi un po’ di aria buona il giorno di Pasquetta. Lo stesso aveva fatto soltanto otto giorni prima.
Al fondo, l’ennesima biforcazione. Lui tiene la destra, e si arrampica lungo una piccola sorgente, di solito segno di vita, ma che quel giorno è sinonimo di morte. Si fa largo tra le betulle, raggiungendo un pianoro, ora segnato dalle tracce notturne dei cinghiali, animali selvaggi quasi quanto le tigri e gli elefanti partoriti dalla sua fervida fantasia. Poi, tenendo la sinistra, s’inerpica ancora più in alto, verso il culmine del bosco.
L’addio in solitudine. Volgendo le spalle alla sagoma un po’ lugubre di Villa Rey, s’accende l’ultima sigaretta, un classico della letteratura che qui invece è realtà. Poi riprende il cammino – questa volta sono pochi, eterni passi in discesa – e, in una impervia radura schermata dagli alberi e dagli arbusti al fondo di un «burroncello» che sembra quasi una delle foreste tropicali che facevano da sfondo ai suoi racconti, depone, ben piegata, la giacchetta.
Guarda per l’ultima volta il sole, che si fa largo con fatica attraverso i rami. Nella sua testa tanta confusione. Ma ormai è tardi per cambiare idea. Tira fuori un rasoio, si slaccia la camicia e il gilet, e s’incide prima l’addome e poi la carotide. Alle 8.30 l’ultimo respiro proprio lì, accanto all’unico grande sasso del bosco. Un luogo ora completamente cintato dai cancelli delle poche case che hanno costruito intorno dove, a parte qualche cercatore di funghi, non s’avventura più nessuno.
Quasi dieci ore più tardi, sono ormai le 18, la lavandaia Luigia Quirico, salita lassù per far legna, intravede vicino alla parte alta del bastione costruito nel Settecento di fronte all’ingresso carrabile di Villa Rey le sembianze di un corpo sdraiato per terra sul fianco sinistro. Spaventata, va in cerca di soccorsi.
Dalla frazione San Martino arriva la guardia Giuseppe Pappalardo. S’avvicina al cadavere, adagiato sull’erba striata di rosso. Nelle sue tasche la ricevuta, firmata Cav. Emilio Salgari, del pacco di manoscritti inviati qualche giorno prima all’editore Bemporad di Firenze.
Quella sera a casa i figli trovano poche sue righe sul tavolo: «Sono ormai un vinto, la pazzia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni dei miei ammiratori che per tanti anni ho divertiti ed istruiti provvederanno a voi. Fatemi seppellire per carità, essendo completamente rovinato». Il giorno dopo tutta la città scopre con raccapriccio che ha perso in maniera assurda uno dei suoi più amati figli adottivi.
mia nonna parlando di Salgari come tutte le persone umili e vicini di casa diceva con rispetto :Lo scrittore”