La rapida demolizione e ricostruzione dell’arteria centrale fu una imponente prova di forza. Scomparvero le vecchie botteghe, apparvero i portici e le colonne di marmo. Sotto terra la galleria di un metrò mai realizzato.
Dai tempi dell’unificazione nazionale con la dizione «via Roma» in tutti gli agglomerati urbani d’Italia – grandi o piccoli che siano – si identifica una delle vie più importanti e solitamente più centrali. Anche Torino non ha fatto eccezione attribuendo, nel 1871, questa definizione alla «via Nuova» che – voluta da Carlo Emanuele I e tracciata da Ascanio Vittozzi – iniziava davanti al palazzo (allora) ducale e tendeva a prolungarsi idealmente sino al castello di Mirafiori.
Con il tempo, essa si era progressivamente degradata, specialmente a causa della non eccelsa qualità edilizia delle costruzioni, tanto che fin dal 1861 si era pensato di ingrandirla, trasformandola in un grande corso abbellito da aiuole e monumenti.
Con l’avvento del fascismo il problema si riproponeva in tutta la sua ampiezza: la via non solo era priva di dignità architettonica, ma risultava anche troppo stretta per assolvere ai compiti di rappresentanza che per il solo fatto di chiamarsi «via Roma» le dovevano essere attribuiti: in primis per sostenere tutto l’armamentario di sfilate, parate e raduni «oceanici» che caratterizzò gli anni d’oro del regime.
A recidere il nodo gordiano fu Mussolini, il quale, con decreto del 3 luglio 1930 decise una volta per tutte come affrontare il problema, stabilendo il valore degli espropri e fissando un termine perentorio per la conclusione dell’opera. I lavori dovevano concludersi nello spazio di otto anni, e quindi al più tardi il 3 luglio 1938.