Identificato un tratto della millenaria infrastruttura, 17 blocchi di pietra perforata. L’acqua giungeva dall’attuale Pellerina, viaggiando su archi sopraelevati. La più «vitale» e utile opera d’ingegneria di Torino romana si rivelerà con i suoi resti, identificati dopo 18 secoli in via Botero 3. Sono le vestigia del suo acquedotto.
Realizzato fra primo e secondo secolo dopo Cristo, captava l’acqua dal fiume Dora Riparia, oltre la zona oggi detta della Pellerina.
Il flusso veniva convogliato in un condotto chiuso, appena affiorante dal terreno, che per un paio di chilometri procedeva dritto, nell’area oggi corrispondente a Borgo San Donato, a poca distanza dall’attuale asse di corso Regina Margherita. L’area allora era già agricola.
Ma, quando il tavoliere della campagna incominciava a declinare, a un chilometro e mezzo dalla squadrata cinta urbana di Augusta Taurinorum, le condotte idriche proseguivano su opere in muratura, sorrette da una successione di archi, che raggiungevano la sommità delle mura, dove s’innestavano in prossimità di Porta Segusina, quasi all’altezza dell’attuale via San Domenico.
Fu un acquedotto che lavorò e diede vita e ristoro a Torino almeno per due secoli. Poi decadde con l’Impero Romano. La mancata manutenzione lo prosciugò.
Ma parte delle sue strutture sopravvissero fino all’inizio del Settecento, quando furono progressivamente rase al suolo, per ampliare le fortificazioni di Torino sabauda. Senza però alterare l’accesso urbano delle acque della Dora lungo la direzione scelta dai romani. Finché Napoleone Bonaparte, occupata la città, decise di radere al suolo tutte le sue difese, cancellando anche le ultime residue memorie dell’antico acquedotto romano.
I torinesi se lo dimenticarono. Ad annotarne l’esistenza rimasero poche fonti cartografiche: la veduta «a volo d’uccello» della città disegnata da Giovanni Carracha, pubblicata nel 1572; un’anonima mappa delle fortificazioni sabaude del 1640 e la coeva carta geografica tracciata da Giovenale Boetto per illustrare l’assedio patito quell’anno da Torino.
Non tutto però era andato perso. Oggi se ne ha la certezza. A ridosso di un edificio sorto a fine epoca barocca in via Botero 3 era rimasto un misterioso ciclopico manufatto, composto da 17 blocchi di pietra sovrapposti ad incastro, perforati all’interno da un incavo circolare di 70 centimetri di diametro.
Rimontati l’uno sull’altro, avevano costituito un maestoso impluvio, una gigantesca gronda lapidea del caseggiato, che negli ultimi secoli ha sfogato fino a tempi recentissimi l’acqua piovana dai tetti del palazzo. La sua presenza, maestosa e singolare, era nota, fotografata e pubblicata fra le curiosità antiche della città, per lungo tempo paga di annoverarla come un ipotetico resto di basilica romana. A indicarla come una reliquia proveniente dall’antico acquedotto sono gli studi condotti prima dall’archeologa Giuse Scalva, poi arricchiti da ulteriori indagini condotte dalle archeologhe Luisella Pejrani e Stefania Ratto, sotto egida e regia della Soprintendente per l’Archeologia del Piemonte Egle Micheletto. A loro si aggiungono le considerazioni sviluppate dall’architetto Gianfranco Gritella, già protagonista dello spettacolare restauro della Mole Antonelliana, autore di uno scenografico plastico della Torino augustea, in scala 1/1500, nel quale si osserva il panorama urbano della Torino di duemila anni fa, ricostruita tenendo conto di tutte le fonti storiche e iconografiche e delle notizie rivelate dagli scavi archeologici finora condotti dalla Soprintendenza.
Gli scavi in via Botero.
A rinnovare l’interesse per l’acquedotto romano scomparso è stato il cantiere che in via Botero 3 intende realizzare nuova edilizia, nel cuore dell’isolato prossimo a via Garibaldi, in un lotto che durante la seconda guerra mondiale era stato bombardato, ma che in epoca romana era non lontano dal luogo dove si ipotizza fosse il foro della città. Le nuove opere edili, avviate nel maggio 2010, sono state precedute dalle indagini archeologiche previste dalla legge.
Il rilievi hanno identificato nelle cantine del vecchio edificio una vasca in muratura di quattro metri per due, rivestita di malta idraulica in coccio pesto, collegata ad una canaletta. Ma soprattutto hanno accertato l’identità dei parallelepipedi in pietra traforata utilizzati come impluvio. Le archeologhe Pejrani e Ratto sono certe che compongono una condotta di distribuzione dell’antico scomparso acquedotto, la prima testimonianza finora rinvenuta di quell’impianto.
I blocchi di pietra, liberati dall’incastro che li ha vincolati fra loro come un’impropria grondaia, dopo essere stati immagazzinati in un deposito del Comune ricavato nella ex fabbrica Diatto di via Frejus, dal luglio del 2013 sono custoditi nei depositi del Museo di Antichità.
Torneranno in via Botero 3 alla fine delle opere edili, per essere ricollocati nelle aree verdi del nuovo stabile, riproposti fuori terra nella sistemazione corretta orizzontale di condotta idrica.
Il racconto di come Torino provvedesse dalla Dora ai suoi fabbisogni idrici, prosegue sul primo numero di Torino Storia.
Molto interessante.Altri particolari di questa nostra stupenda e storica città che tornano alla luce.Grazie.