Età Barocca

La guerra di Torino contro la peste del 1598

Storia dell'epidemia che tenne in scacco la capitale sabauda nell'ultimo scorcio del XVI secolo

Alla fine del XVI secolo Torino fu colpita da un’epidemia di peste proveniente dalla Savoia, al di là delle Alpi. In quanto capitale del Ducato sabaudo, la città era sede di vivaci attività artigianali e commerciali, vi risiedevano la Corte e il centro amministrativo dello Stato: notevole l’afflusso di persone e di beni da paesi vicini e lontani, per i motivi più svariati.

Casi di peste in Savoia erano stati rilevati nei primi mesi del 1598 e intere città erano state comprese in elenchi che le qualificavano come sospette o, addirittura, infette. Per questi luoghi passavano importanti vie di comunicazione fra la Pianura Padana e i centri commerciali svizzeri e francesi e, in più, esisteva un flusso interno allo Stato di persone e di beni. Come se non bastasse il Duca Carlo Emanuele I era di frequente in Savoia per le vicende belliche in corso, che imponevano contatti continui con Torino.

Blocchi alle frontiere. Alla notizia della peste il Magistrato Generale sopra la Sanità si attivò per porre in essere quelle che erano ritenute le misure necessarie per interrompere la diffusione del contagio sul territorio. Nell’aprile 1598 bandì i paesi accertatamente infetti della Savoia dai rapporti commerciali, decretò il divieto per le comunità al di qua dei monti di ricevere persone e cose provenienti dalla Savoia e mise guardie armate ai valichi alpini. Queste avevano l’incarico di impedire l’ingresso di coloro che arrivavano da luoghi infetti o sospetti e, per gli altri, di verificare che fossero in possesso di certificati di buona salute emessi dalle autorità competenti. Tutte le persone non munite di questo certificato dovevano fare una quarantena di 20 giorni in locali che erano stati appositamente attrezzati presso i valichi.

L’inizio della malattia. Nel successivo mese di maggio fu firmata la pace e i soldati impegnati in Savoia si trovarono nella necessità di rientrare nei luoghi di origine. Furono tutti accompagnati a casa sotto scorta dopo essere stati sottoposti a quarantene ai valichi, all’esterno di Torino o nelle vicinanze del loro paese. I risultati di queste misure preventive furono inefficaci e i primi casi di peste comparvero poco dopo lungo la strada che portava a Torino e poi dentro la città.

All’inizio di settembre ci furono i primi casi di peste in Torino e il giorno 13 la città fu sospesa dal Magistrato Generale sopra la Sanità e bandita dal resto dello Stato. L’andamento del contagio fu altalenante e vide due fasi: una prima più leggera nel 1598 con una mortalità contenuta e provvedimenti sanitari ordinari; la seconda nel 1599 che richiese, invece, interventi eccezionali.

La Corte sabauda si trasferì fuori Torino, così come si allontanarono gli addetti alla diplomazia, il Nunzio apostolico, il Senato, il Consiglio di Stato; i Principi furono ospitati nel castello di Fossano. A Carlo Emanuele I di ritorno dalla Savoia fu consigliato di non entrare nella citta e, in un primo tempo così fece, poi si stabilì nel castello di Miraflores.

Il lazzaretto. Il Consiglio Comunale di Torino deliberò il ricovero coatto degli infetti nel lazzaretto fuori le mura al quale aggiunse la costruzione di casette di legno, la quarantena prolungata a 22 giorni dei sospetti, la distruzione con il fuoco dei loro abiti e degli altri effetti personali, l’assunzione di nuovi medici e monatti, il divieto delle funzioni religiose e di ogni altra manifestazione al chiuso e all’aperto, dei contatti con ammalati e la chiusura delle porte di accesso alla città.

Di fronte alla peste non erano sufficienti i soli ricoveri per le persone, perché quando i monatti trasferivano un ammalato nel lazzaretto dovevano prelevare gli oggetti contenuti nella casa, in quanto si ritenevano possibili fonti di contagio e dividerli a seconda della possibilità o meno di recupero. Tutto veniva bruciato, bollito o disinfettato e il recuperabile, come denaro e preziosi, conservato in locali appositi per poter essere restituito, a epidemia cessata, ai legittimi proprietari o ai loro eredi dopo aver trattenuta una quota a titolo di imposta sulle eredità.

Molte attività produttive cessarono così come i commerci; le persone ricoverate dovevano essere vestite, nutrite e curate, i morti seppelliti, i medici, gli speziali, i becchini, i chirurghi barbieri, le guardie alle porte e nelle strade, coloro che preparavano le razioni alimentari da distribuire, i monatti dovevano essere pagati in denaro e in natura e costavano parecchio. Le razioni alimentari quotidiane per i monatti erano state stabilite in ben: «pane rationi una e meza che son michoni tre, vino pinte doe il giorno, carne livre doe il giorno, ovi nelli giorni di vigilia numero quatro per caduno, butiro onze quatro per caduno il giorno,  formagio onze 4».

Medici della peste

L’errore di abbassare la guardia. Un paio di mesi dopo, molti dei ricoverati nel lazzaretto risultarono sani, il numero dei morti quotidiani iniziò a diminuire e venne smantellato in parte l’apparato predisposto, anche, perché la crisi economica iniziava a farsi grave, le provviste scarseggiavano, le entrate fiscali erano quasi nulle e la spesa pubblica era divenuta insostenibile.

La decisione di ridurre le cautele fu pessima e incauta. La peste ricomparve più virulenta di prima. I documenti coevi scrivono che si arrivò a 150 morti al giorno nel luglio 1599, tra i quali alcuni Consiglieri comunali e molti addetti alla sanità, in una città che, prima dell’epidemia, aveva poco più di 20.000 abitanti e molti erano fuggiti in luoghi ritenuti sani.

Carlo Emanuele I emanò, allora, l’ordine di procedere con misure straordinarie ed eccezionali. Di altro simile non si trova traccia nelle pubblicazioni degli storici che hanno studiato le pestilenze.

Si impose una maggiore necessità di distinzione fra individui, medici, cirogici, monatti «netti» cioè coloro che non avevano avuto contatti con gli appestati e che, ormai, erano rimasti solo in poche unità, e i «brutti o sospetti», sempre più numerosi da sistemare in locali appositi fuori dalle mura e separati dagli altri. Gli addetti alla sanità pagarono un caro prezzo per questa pestilenza.

La città venne svuotata e le 500 persone ancora all’interno di Torino furono spostate in abitazioni di fortuna nel territorio circostante divisi fra sani, ammalati e sospetti. Altri 100 monatti provenienti dalla Savoia o dai paesi lungo la strada verso Torino ove la peste era stata debellata e, quindi, «vaccinati» vennero assunti e furono reclutati anche nuovi medici e becchini.

La purificazione. Proprio i monatti furono incaricati della gigantesca operazione di purificazione di Torino. Le strade e gli edifici della città ormai vuota vennero lavati, profumati, disinfettati e i muri esterni e interni coperti di calce viva considerata un disinfettante efficace, risparmiando solo alcuni palazzi della nobiltà e della Corte che ebbero un trattamento sanitario diverso.

A questo punto, per garantirsi che la città fosse veramente libera dalla peste, si fecero intervenire «le prove», una particolare e singolare categoria di addetti alla sanità, perlopiù monatti o volontari. Già in precedenza, quando in una casa si verificava un caso di peste, si provvedeva alla sua disinfezione cioè la si svuotava, lavava, profumava e imbiancava con calce viva. Ma dopo tutto questo chi garantiva che fosse veramente un luogo sicuro e non più infetto? Ed ecco le «prove».

La «prova» era una persona del tutto sana, che aveva già fatto una quarantena e che si impegnava a stare chiusa nella casa per i 22 giorni considerati quelli dell’incubazione della malattia. Una piccola fessura per passare cibo e acqua. Nel corso del 1599 il numero delle «prove» raggiunse un tale livello numerico da richiedere la presenza di controllori e assistenti. Anche Palazzo di Città ebbe le sue «prove», ben due.

La crisi economica. La crisi economica che accompagna sempre le epidemie mosse il Consiglio Comunale a occuparsi, già dal settembre 1598, in modo più intenso del solito dei suoi poveri: i «poveri mendicanti» che, non solo non avrebbero più trovato elemosine, ma che dovevano essere provvisti di un maggior numero di ricoveri in quanto possibili diffusori del contagio; e i «poveri vergognosi», cioè coloro che, pur essendo in difficoltà, non andavano per le strade a mendicare, disponevano perlopiù dell’uso di una abitazione e vivevano di carità. Erano quelli che oggi chiameremmo «nuovi poveri». Per questi l’amministrazione comunale dovette accrescere il contributo pubblico venendo a mancare quello privato. La situazione contingente aveva aggiunto gli «sprovvisti» che non erano poveri di base, ma che in quel momento non erano in grado di approvvigionarsi perché rinchiusi nelle loro abitazioni.

Nei primi mesi del ‘600 la peste a Torino non c’era più e il problema che i torinesi dovettero affrontare fu quello della ripresa economica.

 

Leila Picco


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