In epoca romana la piazza civica era grande più del doppio di oggi, poi l’arrembante edilizia privata la soffocò. Tra Sei e Settecento gli interventi urbanistici per darle l’aspetto attuale, all’ombra della torre civica che non c’è più.
Ai tempi dei Romani, l’attuale piazza Palazzo di Città era grande più del doppio di oggi. Posta all’incrocio tra il «cardo massimo» e il «decumano massimo» (le odierne vie Porta Palatina e Garibaldi), si estendeva ad ovest fino all’altezza di via Milano, e a nord fino al decumano successivo (che si può riconoscere nella sequenza interrotta di via Corte d’Appello, via Cappel Verde e vicolo San Lorenzo). Era attraversata a metà dalla nostra via Conte Verde (un dettaglio importante per gli sviluppi successivi).
La piazza non affacciava direttamente sulle vie. Gli archeologi concordano che fosse preceduta da un portico a due piani che la cingeva su tutti i lati: un lungo colonnato sormontato da un continuo «solarium» coperto. Sotto si mercanteggiava; sopra ci si incontrava, forse si svolgevano assemblee, si riscuotevano tasse. Era il foro di Torino.
Nel 1405, un tal Beccuti aveva chiesto di poter costruire un’ala porticata con «solarium» al di sopra, da destinare a commercio (un edificio che potrebbe somigliare all’ala del mercato dell’Abbazia di Staffarda). Dimostrata l’utilità sociale dell’opera – effettivamente incontestabile, dato che il proponente stava offrendo in cambio uno spazio commerciale coperto – aveva occupato il suolo pubblico in modo permanente, semplicemente pagando il disturbo.
Quindici anni dopo (nel 1420), un certo Ruata aveva proseguito l’operazione affiancando il fabbricato con un altro identico. Casi ante litteram di «urbanistica contrattata». Poi gli eredi trasformarono i «solarium» in alloggi e sopraelevarono il tutto di ben tre piani.
La «piazza delle Erbe» restava comunque la più importante, e il suo prestigio crebbe ulteriormente in seguito al «miracolo eucaristico» del 1453. Così, il Consiglio comunale decise, nel 1472, di stabilirvi la propria definitiva sede.
Sotto impulso ducale nasce nel 1658 il nuovo palazzo comunale: Carlo Emanuele II, dovendo maritare le figlie, chiede al Comune di prevedere abbellimenti in città, tra cui un nuovo palazzo urbano. I sindaci sono contenti e commissionano il progetto a Francesco Lanfranchi, architetto ben introdotto a corte, la cui figlia aveva avuto come padrino il duca in persona. Col nuovo palazzo – limitato in questa fase alle sole cinque campate centrali – si compie una decisa promozione d’immagine dell’istituzione civica.
Non solo la mole ma lo stesso impianto distributivo è quello della classica dimora nobiliare: atrio e corte, scalone, loggia, salone d’onore, sale secondarie. La facciata è scandita da paraste; le finestre hanno un taglio e un ornato simile a quelle della parte superiore del Palazzo Ducale.
L’ultimo e risolutivo passo nella definizione della piazza è il suo «dirizzamento» a opera di Benedetto Alfieri, già previsto mediante biglietto regio del 1729 ma realizzato tra il 1756 e il 1758, non solo dettato da motivi di decoro ma facente parte di una complessiva politica di rigenerazione urbanistica.
Nel 1842, torna ad essere casa Savoia a voler porre un proprio segno. Carlo Alberto, in occasione delle nozze del figlio Vittorio Emanuele, dona il gruppo scultoreo che verrà collocato al centro della piazza nel 1853, un elemento che si inserisce nel filone romantico dell’istruire il popolo attraverso le vestigia dei «grandi».
L’eroe proposto è il Conte Verde, personaggio trecentesco che «lustrò» la storia sabauda combattendo i turchi e i bulgari. Qui è rappresentato appunto nel gesto di vincere i mori. Ma il conte era ormai talmente estraneo alla memoria dei torinesi, che la sua effige guadagnò presto un soprannome dialettale dal suono effettivamente un po’ turco: «i tre ch’as dan», i tre che se le danno.