Primo Levi e il piemontese
€13.00
Bruno Villata
90 pagine, Edizioni Savej
«Amo questo dialetto è il mio, quello della mia infanzia, che mio padre parlava con mia madre e mia madre con i bottegai». Primo Levi manifestò – soprattutto nel romanzo «La chiave a stella», che ha per protagonista il torinese Tino Faussone, operaio specializzato che gira il mondo a montare gru, ponti, derrick per impianti petroliferi – affetto, consuetudine, ammiccamenti costanti con il piemontese. Bruno Villata mette sotto la lente di ingrandimento con vivacità, ma senza perdere il rigore, quest’aspetto poco indagato del Levi scrittore: l’utilizzo di una lingua piuttosto «fuorivia» in cui si intrecciano di continuo – desunti appunto dal piemontese – prestiti, interferenze, calchi lessicali e tutti quei fenomeni comuni nelle situazioni di lingue in contatto.
Parole come: balengo (sciocco), mucco mucco (mortificato), farlecca (ferita), grottolute (ruvide), malgraziosa (sgarbata), nuffiava (annusava), rabadan (baccano), tracagnotto (basso di statura). Oppure anche espressioni come: a truc e branca (in modo approssimativo), mettere Berta in sacco (tacere), bagnare il naso (superare), perdere le bave (fare follie per qualcosa), come succhiare un chiodo (non trovare alcun gusto o senso in qualcosa), grazioso come il mal di pancia… sono tutte lo-cuzioni usate da Levi, ricche di sorprendente vivacità ed ironia di cui le pallide traduzioni italiane non riescono a rendere l’arguzia e la ricchezza espressiva.