Costruito nel 1938 in corso Massimo D’Azeglio, poteva ospitare migliaia di spettatori ma ebbe vita breve, fu bombardato nel 1942
Uno degli edifici torinesi che nel corso degli anni – ha ormai superato il secolo di vita – è stato oggetto del maggior numero di trasformazioni, è stato senza dubbio il complesso conosciuto come «Torino Esposizioni». Nato come «Palazzo del Giornale» al tempo della glorioso, indimenticabile Esposizione Internazionale del 1911, e unico destinato a sopravviverle, perché il solo costruito in cemento armato – tecnica allora ancora poco utilizzata – nelle intenzioni avrebbe dovuto servire da contenitore alle mostre, rassegne, convegni ed altre iniziative che a Torino si fosse voluto organizzare. Ed effettivamente, per almeno una ventina di anni l’edificio corrispose alle intenzioni di chi lo aveva voluto ospitando rassegne di ogni tipo, culminate nell’esposizione del 1928, quando venne utilizzato come «Palazzo della Seta».
La svolta si verificò all’inizio anni ’30, quando Mussolini stabilì che Torino dovesse essere la sede dell’Ente Nazionale della Moda. Opportunamente adattato, l’edificio rappresentava la soluzione ideale, potendo ospitare sia gli uffici dell’ente, sia le sfilate di moda e i periodici saloni del settore. Non che nel frattempo il palazzo fosse rimasto disoccupato. Dopo la chiusura dell’Esposizione aveva infatti ospitato le collezioni del Museo del Risorgimento, costrette ad abbandonare la Mole Antonelliana, dove erano magnificamente custodite, perché bisognosa di lavori di consolidamento (la nuova destinazione del palazzo avrebbe comportato un nuovo trasferimento del Museo del Risorgimento, ma questa volta sarebbe stato l’ultimo, perché finalmente avrebbe trovato collocazione a Palazzo Carignano, dove, per la verità, avrebbe dovuto andare sin dall’inizio).
La prima ristrutturazione non suscitò particolari entusiasmi, tanto che i quotidiani torinesi, dovendola comunque approvare come «opera del regime», se la cavarono nel più classico dei modi, invitando i cittadini a «guardare all’insieme», senza soffermarsi sul particolare. Sostanzialmente, si trattava soltanto di una cortina, una specie di sipario (un’enorme parete giallogrigia, la definiva La Stampa) posto dinnanzi alla facciata di gusto eclettico dell’edificio originario. Tanto, comunque, bastò perché il 12 aprile 1933 la nuova destinazione venisse inaugurata, alla presenza della Regina d’Italia, con una grande mostra cui parteciparono tutti i grandi nomi dell’haute couture italiana.
Trattandosi di una soluzione raffazzonata, messa in piedi in fretta e furia, vista l’importanza del settore che ospitava, non poteva durare. E così si dovette procedere, dopo poco tempo, ad una nuova e più pesante ristrutturazione, affidata questa volta all’architetto Ettore Sottsass. Il quale, oltre a trasformare completamente la facciata dell’edificio, provvide ad allungarlo con un basso fabbricato che si estendeva lungo il corso Massimo d’Azeglio sino alla via Petrarca.
Il nuovo complesso disponeva di un giardino interno, e terminava con un teatro all’aperto – il «Teatro della moda» – capace di ospitare diverse migliaia di spettatori. Come spiegava La Stampa «la singolarità di questo teatro all’aperto è costituita dalla duplicità del palcoscenico, nel senso che esso ha due opposti boccascena, e uno si apre sul teatro, ora costrutto, all’aperto, e l’altro servirà a un teatro chiuso, che sarà poi edificato».
Il teatro all’aperto, battezzato «Teatro della Moda» sarebbe stato inaugurato il 7 luglio 1938 con una rappresentazione dell’Aida, diretta dal maestro Marinuzzi; due giorni dopo sarebbe stata la volta di una sconosciuta «Palla dei Mozzi», autore lo stesso Marinuzzi; per concludere, affidata allo stesso direttore, con una edizione della Gioconda.
La vita del teatro all’aperto fu breve, ma intensa. La previsione di un teatro chiuso si sarebbe, sì, verificata; ma molto più tardi, quando l’edificio avrebbe iniziato, per l’ennesima volta, una nuova vita. La creazione di Sottsass andò presto in frantumi – meglio in macerie – perché ripetutamente bombardata nel corso del 1942. Finita la guerra, ciò che restava – il vestibolo d’ingresso e la galleria su corso Massimo d’Azeglio – fu affidata alle capaci mani di Pier Luigi Nervi, per uscire ancora una volta completamente rimaneggiato. Il teatro all’aperto non sarebbe più stato riproposto, ma in compenso si sarebbe costruito il teatro chiuso, oggi «Teatro Nuovo». Ma questa è un’altra storia.