Novecento

Torino 25 aprile 1945 – La guerra è finita, ma anche no

Settantesimo anniversario della Liberazione. La vita in città dopo il conflitto mondiale rimase difficile per molti mesi: mancava il cibo, il gas, la corrente elettrica.

Nella notte fra il 25 e il 26 aprile di settant’anni fa aveva inizio la liberazione di Torino, destinata a concludersi nel giro di pochi giorni. Ma se il sollievo fu grande; e altrettanto grandi furono le manifestazioni di giubilo che accolsero prima i partigiani e poi gli alleati, per i torinesi ben poco cambiò rispetto agli ultimi mesi di guerra.

Certo, già da qualche settimana era cessato l’ululato delle sirene che annunciavano l’arrivo dei Boeing B-17 – le mitiche «Flying Fortress» americane – o gli altrettanto temibili B-24 «Liberator» e gli abitanti di Torino, soprattutto quelli della Barriera di Nizza, avevano iniziato a tirare un sospiro di sollievo; ma per altri aspetti la guerra continuava anche oltre la sua conclusione.

Il 30 di aprile cessava l’oscuramento, ma pochi ebbero occasione di accorgersene, perché la città rimaneva ostinatamente al buio come prima, per la semplice ragione che l’elettricità mancava completamente, e sarebbe mancata ancora per parecchio tempo. E quando sarebbe finalmente tornata, sarebbe stata erogata con il contagocce, arrivando nelle case solo di sera, a crepuscolo inoltrato.

Anche se solo di fatto, e non imposto, l’oscuramento continuava a condizionare il comportamento dei torinesi, perpetuando le consuetudini che avevano assunto quando erano soggetti al coprifuoco. Circolare di sera, o di notte, non era proibito, ma era scoraggiato. Chi si fosse avventurato a farlo doveva fare attenzione a non incappare in una pattuglia di perlustrazione, composta di 5 elementi, o in una ronda, che poteva arrivare sino a 50 agenti «tutti armati di mitra o di moschetto». E se per avventura gli fosse capitato di udire il colpo di fischietto o lo «altolà» del capo pattuglia, avrebbe dovuto fermarsi immediatamente e «pur senza alzare le braccia» levare le mani di tasca, per dimostrare di non essere armato.

E se per l’illuminazione si dovette ricorrere al razionamento, non solo nelle abitazioni, ma anche nelle fabbriche, per il gas la situazione si dimostrò, se possibile, ancora peggiore. A causa del timore di scoppi dovuti ai bombardamenti, che avevano trasformato la rete cittadina in un colabrodo, l’erogazione venne sospesa sino al tardo autunno: solo a partire dall’8 dicembre il gas riprese ad affluire ai fornelli, ma solo per due ore al giorno, fra le 11.30 e le 12.30 e fra le 18.45 e le 19.45, ciò per il tempo a mala pena sufficiente a cuocere qualcosa per pranzo e cena. Per tutta l’estate le massaie torinesi, se avevano voluto servire alle loro famiglie pasti caldi, erano dovute ricorrere a sistemi di cottura fantasiosi quanto improbabili. Anche perché le stufe, o le cucine economiche, che sarebbero state la soluzione più semplice, erano inutilizzabili per mancanza di combustibile.

Ma anche ammesso che il combustibile fosse disponibile, a scarseggiare erano comunque gli alimenti: in quantità insufficiente quelli disponibili con il tesseramento, che continuava imperterrito nonostante la fine della guerra; e sempre più cari quelli reperibili a borsa nera, che continuava a prosperare anche perché una parte non piccola della produzione agroalimentare del Piemonte veniva dirottata sulla vicina Francia in cambio di valuta pregiata.

La situazione era particolarmente grave per quanto riguardava il pane e il latte. Quanto a quest’ultimo, non solo scarseggiava, ma quando giungeva nelle latterie torinesi, come ebbe a dire il sindaco Roveda, «è qualcosa che è bianco, ma non più se non un lontanissimo parente del latte». Quanto al pane, nonostante le autorità si affannassero a precisare che «la situazione stava migliorando», e che «fosse confezionato con una percentuale sempre maggiore di frumento», a finire nell’impasto continuavano ad essere cereali meno nobili, unitamente a sostanze indefinibili. Del resto, la differenza era nel prezzo: il pane «della tessera» veniva venduto a 22,50 Lire il chilo, quello «buono» della borsa nera raggiungeva le 150. Una situazione destinata a sfociare in una serie di manifestazioni che il 10 giugno avrebbero fatto temere un assalto ai forni.

Per fortuna, a placare la fame dei torinesi erano rimaste in vita le Mense di guerra che, ribattezzate Mense del popolo, offrivano ai torinesi la possibilità di «mangiare senza fare indigestione» come ebbe a dire il sindaco, a 45 Lire per pasto (più altre 12 Lire per eventuali supplementi di minestra). Ed un altro aiuto importante arrivava dalla minestra che la Fiat erogava non soltanto ai propri dipendenti, ma a tutti coloro che si presentavano ai cancelli degli stabilimenti.

In realtà, in quei primi tempi del dopo guerra scarseggiava tutto: persino l’acqua che, come chiosava La stampa, «non c’è, ma dovrebbe esserci». Probabilmente, però, la situazione peggiore riguardava le abitazioni. Secondo il censimento effettuato dal Comune, ben 15.925 edifici pari a 42.417 vani risultavano distrutti, e altri 66.169 per un totale di 189.174 vani pesantemente danneggiati e di fatto inabitabili. La ricostruzione avrebbe richiesto molto tempo, e per di più viaggiava a rilento, per l’atteggiamento di molti proprietari che rimandavano gli interventi sperando così di indurre il governo ad aumentare l’entità del contributo per danni di guerra. Ma in ogni caso, se anche il contributo fosse raddoppiato o triplicato, ci si doveva sempre confrontare con la penuria di materie prime. Anche se si poteva recuperare qualcosa dalle macerie dei bombardamenti, il cemento e il todino di ferro erano sempre scarsamente reperibili.

La situazione dei torinesi sarebbe stata da incubo, se per fortuna non si fossero registrati anche segnali positivi che lasciavano ben sperare. Il 18 maggio, ad esempio, veniva ripristinato il servizio postale fra Torino e il resto del Paese, interrotto dal’8 settembre 1943, e negli ultimi mesi anche fra Torino e l’Italia del nord, tanto che negli ultimi giorni precedenti la Liberazione era stato istituti un servizio – mai entrato in funzione – di postini ciclisti per portare la corrispondenza negli altri centri della Repubblica Sociale.

Il giorno successivo, poi, venivano ripristinati i collegamenti con Milano, Casale Monferrato e Alba, mentre quelli per  Chieri, Bussoleno e Villanova d’Asti erano partiti da una Porta Nuova che recava ancora evidenti i segni dei bombardamenti fin dal 4 maggio. Per raggiungere destinazioni più lontane ci sarebbe occorso più tempo. In particolare il primo treno per Roma sarebbe partito soltanto il 25 agosto e avrebbe impiegato 32 ore per giungere a destinazione. La partenza era prevista per le 4.30 del mattino, ma i viaggiatori erano arrivati a prendere posto nei vagoni, muniti di cuscini e vettovaglie, già prima della mezzanotte con le ultime corse dei tram. Il fatto è che, come osservava il cronista, presente sul posto, «quello che prima della guerra faceva parte dell’ordinaria amministrazione, oggi può sembrare un avvenimento».

Ma il segno più evidente di una ritrovata normalità sarebbe stata la ricomparsa nelle edicole delle due tradizionali testate cittadine, che, entrambe compromesse con il regime, avevano ritenuto opportuno defilarsi in attesa di tempi migliori. Mentre La Stampa aveva sospeso immediatamente le pubblicazioni, la Gazzetta del Popolo era uscita ancora il 26 aprile in versione «fascista».

Per la verità, anche senza i loro tradizionali quotidiani i torinesi non difettavano di informazione, anzi, forse ne avevano sin troppa. Nella tipografia della Gazzetta del Popolo si stampavano L’Unità e l’Avanti, mentre da quella della Stampa uscivano Il Popolo Nuovo, GL, l’Opinione e il Corriere Alleato. Giornali che testimoniavano senza dubbio di una ritrovata libertà di stampa e di opinione, ma che difettavano di quel sapore «casalingo» che solo testate con una lunga consuetudine di rapporti con i propri lettori avrebbero saputo imprimere.

E così il 24 agosto riprendeva le pubblicazioni la Gazzetta del Popolo, sia pure – a segnare un momento di discontinuità con il passato – sotto le mentite spoglie di Gazzetta d’Italia. La Stampa, invece – con l’aggiunta dell’aggettivo «nuova» era già uscita il 21 luglio. Nel primo numero, la seconda delle due facciate di cui constava il giornale, dedicata alla cronaca cittadina, spiegava come ci si deve comportare all’alt delle pattuglie di ronda. Ma subito sotto annunciava aumenti in arrivo per elettricità e gas. E nella colonna a fianco ricordava che il giorno successivo, le due squadre di calcio cittadine avrebbero sostenuto, a Milano, un doppio confronto con le milanesi: la Juventus con il Milan e il Torino con l’Ambrosiana.

Segno di continuità con il passato era invece la rubrica «La carità del sabato», mentre per le curiosità veniva riportato il caso di quel proprietario di un immobile all’incrocio tra via Palmieri e via Talucchi, il quale, avendo a suo tempo fatto collocare sulla sommità dell’edificio la statua di un giovane che salutava romanamente, era stato invitato dagli inquilini a farla rimuovere. Ritenendola punizione eccessiva, egli si era limitato a far segare da un marmista il braccio incriminato. In ogni caso, oggi la statua è ancora lì.

Argomenti di normale attualità, come quello sollevato il 21 settembre dalla Gazzetta d’Italia, che se la prendeva con l’elenco del telefono, ritenuto «doppiamente vecchio, perché più di un anno e mezzo è trascorso dalla sua distribuzione e perché nel frattempo vi fu un 25 aprile che travolse tutto, compreso il numero di telefono della casa littoria e quello del partito fascista repubblicano», mentre in compenso si stenta a conoscere i numeri del CLN, del comando alleato, dei sindacati. Certi nomi contenuti nella guida – conclude il giornale – stridono «come ferri roventi nell’acqua».

Se, a fronte dei giganteschi problemi che i torinesi si trovavano a vivere, si trovava il tempo di discettare dell’elenco telefonico, significava che la guerra era finita per davvero.