Un milione e mezzo di deportati militari, politici e ebrei usciti vivi dai campi di concentramento rientrarono in Italia dopo la Liberazione. Nel 1945 il Tribunale di Torino processava gli aguzzini dei morti e dei sopravvissuti.
Immaginiamo la scena.
È il 10 settembre del 1945, siamo in via della Corte d’Appello, dove oggi si celebrano i matrimoni civili. È in corso il processo contro uno degli oltre cinquecento imputati che hanno militato nella Guardia nazionale repubblicana in Piemonte e che troviamo dietro le sbarre in questi mesi. Nei due anni e mezzo di «giustizia straordinaria» che seguono la Liberazione, nella città di Torino viene portato a termine più di un dibattimento al giorno.
Il brigadiere in gabbia è accusato di due reati gravissimi: è ritenuto responsabile della cattura di due partigiani. Pierino Cerrato, deportato a Dachau nell’ottobre del 1944, e Carlo Pizzorno (Carluccio), fucilato al poligono di tiro del Martinetto il 22 settembre dello stesso anno.
Carluccio non tornò. Poco prima di morire, Carlo Pizzorno aveva scritto al padre un’ultima volta. Stava per uscire dalle Carceri Giudiziarie di Torino, le «Nuove», per essere tradotto alla fucilazione nel poligono del Martinetto con sette suoi compagni di lotta: Oreste Armano, Giuseppe Bocchiotti, Walter Caramellino, Gianfranco Farinati, Lorenzo Massai Landi e Ferruccio Valobra. «Io sono e muoio antifascista», aveva dichiarato. Le ultime parole scelte da «Carluccio» prima di essere fucilato da un plotone di militi fascisti ci mostrano una profonda fede intrisa di senso di colpa per il proprio slancio vitale, e di perdono cristiano: «non odiare nessuno neanche coloro che hanno distrutto la tua famiglia e quel po’ di felicità che il mondo sempre vuole dare agli uomini», scriveva poco prima, nel cuore della notte, al suo «paparone», con un nodo alla gola, nelle «ultime e terribili ore».
Gli occhi fissi sull’obiettivo, la cravatta annodata perfettamente.
La foto con cui verrà ricordato la si può vedere ancora oggi, online e in corso Inghilterra, dove Carluccio abitava, sulla lapide che rievoca la sua lotta per la «causa della libertà» e la medaglia d’argento al valor militare che avrebbe ricevuto. E su un’altra lapide si commemora il sacrificio suo e di altri martiri della Resistenza, quella inaugurata l’8 luglio 1945 al poligono del Martinetto. Circondato da una folla immensa, il cardinale Fossati ha commemorato tutti i morti, quelli caduti sotto le bombe, quelli delle stragi e i giustiziati. I torinesi presenti lo hanno ascoltato con le lacrime agli occhi, riverenti, sussurrando parole di perdono e di vendetta. Questi dettagli li ha registrati il cappellano delle Nuove, padre Ruggero Cipolla, che il Martinetto lo conosceva bene per avere assistito alle fucilazioni di 72 persone. Ora, nel dopoguerra, padre Ruggero sta assistendo alle condanne e alle esecuzioni degli «altri», dei fascisti.
La stragrande maggior parte dei collaborazionisti alla sbarra, come il brigadiere accusato della cattura di Carluccio, se la caverà con qualche mese di prigione approfittando della clemenza della Corte di Cassazione (che invaliderà circa metà delle sentenze) e, a partire dall’estate del 1946, degli effetti dell’«amnistia Togliatti». Saranno ben pochi quelli che sconteranno la loro colpe.
Nell’estate del 1945 la città restituisce un riflesso opaco del proprio recente passato. Tre settimane prima del processo contro il brigadiere fascista, in città si è svolta un’imponente manifestazione che ha dato voce al disagio dei reduci, e i giornali hanno raccontato l’indignazione della comunità a causa del comportamento dei «facinorosi», ex imboscati o sfollati che hanno approfittato del caos che sta regnando nel paese per darsi al saccheggio. Anche per questo i sopravvissuti ai lager nazisti, i pochi che da mesi percorrono dolorosamente la lunga strada del ritorno, sono spesso malvisti.
Pierino tornò. C’è una gran voglia di ricominciare, e non c’è chiarezza sul destino di chi, come Pierino Cerrato, è stato deportato oltre le Alpi. Le informazioni sono confuse e il crimine appena compiuto ha dimensioni difficili da valutare. Si parla in modo generico di rimpatriati dalla Germania, di persone denutrite, ammalate, di vittime. Non c’è una distinzione tra i luoghi in cui avveniva l’annientamento attraverso il lavoro dei deportati «politici» – come Dachau e Mauthausen – e i campi di sterminio destinati esclusivamente o parzialmente alla «soluzione finale» della «questione ebraica», come Auschwitz. È un tempo in cui i reduci sono guardati addirittura con sospetto – perché loro sono tornati e gli altri no? – e si fa ancora molta fatica a credere ai loro racconti e all’esistenza di camere a gas e forni crematori, benché sui giornali emergano sempre di più, con lo scorrere del tempo, dettagli voyeuristici e raccapriccianti sui lager nazisti, e per questo ritenuti poco attendibili: donne sterilizzate, bambini bruciati, pelle umana usata per gli scopi più allucinanti.
Lunedì 10 settembre 1945, quando il brigadiere accusato della cattura di Carluccio e Pierino Cerrato entra ammanettato nell’aula di via della Corte d’Appello, quando quest’uomo quasi cinquantenne con il fisico provato da tre mesi e mezzo di prigione si siede dietro le sbarre pronto ad affrontare il dibattimento, sono passati più di quattro mesi dalla Liberazione. Ma quattro o cinque metri davanti a lui, fuori dalla gabbia, c’è un giovane uomo di trentun’anni con l’aspetto di un vecchio. Che lo guarda, e lo riconosce. È Pierino Cerrato, sopravvissuto: è tornato. «Si è presentato spontaneamente per deporre», registra il dattilografo del processo.
Se immaginiamo questa scena, possiamo cogliere uno scorcio di quello che significò per gli abitanti di una città lacerata dalla guerra il ritorno dei sopravvissuti della «galassia concentrazionaria». Fu a tutti gli effetti un contro-esodo che riportò nell’Italia liberata un milione e mezzo di reduci tra lavoratori, militari e deportati politici ed ebrei, che vennero accolti per lo più dalla Croce Rossa a Bolzano e al centro raccolta di Pescantina, vicino a Verona. Solo per quanto riguarda gli internati militari italiani, nei campi di transito dell’Europa liberata gestiti dagli Alleati se ne registrarono 635.000, e nel mese di luglio fino a 7.000 al giorno attraversarono le Alpi. Nei primi tre mesi del dopoguerra terminò l’odissea di quasi tutti i sopravvissuti dei lager liberati dagli Alleati, in prevalenza deportati politici. Venne poi il turno degli ebrei, che iniziarono a rientrare solo ad agosto.
Dei deportati «razziali» e politici, uno su due non tornò.
Alcuni, tra coloro che si salvarono, si fecero vedere ai processi contro i collaborazionisti che avevano partecipato alle cacce all’uomo, alcuni provarono a raccontare, in molti capirono che sarebbe stato difficile, se non impossibile, come ha scritto Lidia Beccaria Rolfi, reduce di Ravensbrück:
Mamma era una donna all’antica: aveva sempre lavorato, messo al mondo dei figli, tirato avanti con i denti fin dalla prima guerra mondiale con una bambina di due anni, un maschietto di undici mesi, il marito richiamato e due annate di grandine […] Come raccontare la mia fame a lei che aveva combattuto sempre per darci da mangiare, come raccontare il freddo a lei che lavava i panni e le lenzuola nell’acqua gelata anche d’inverno, che non aveva mai riposato neppure la domenica, perché le mucche devono essere munte e la verdura raccolta. Capii che non avrei potuto raccontare. Non si racconta la fame, non si racconta il freddo, non si raccontano gli appelli, le umiliazioni, l’incomunicabilità, la disumanizzazione, il crematorio che fuma, l’odore di morte dei blocchi, la voglia di solitudine, il sudicio che entra nella pelle e ti incrosta. Tutti hanno avuto fame e freddo e sono stati sporchi almeno una volta e credono che fame, freddo e fatica siano uguali per tutti. Non avrei raccontato, almeno per ora, forse avrei parlato dell’evacuazione, un avvenimento simile ad altri racconti di guerra come la ritirata di Caporetto, o la ritirata di Russia che altri avevano già raccontato e poteva servire di confronto. Avrei raccontato questo ai miei, avrebbero capito. Forse.